Oblio di David Foster Wallace ***
pagine 393 – € 15.00
Editore: Einaudi
Collana: Stile Libero big
“Finito! Ce l’ho fatta! Evviva!” Ecco cosa ho pensato quando sono arrivato a pagina 393 di questo romanzo. O meglio, di questi “otto superbi romanzi brevi”, come recita la seconda di copertina.
In realtà si tratta di due brevi racconti e di sei romanzi che potrebbero assomigliare a dei racconti molto lunghi.
E da quant’è che lo sto leggendo? Tre mesi? Forse quattro. Ci ho letto sopra altri due o tre libri (molto magri, certo, ma anche molto più scorrevoli). Perché? Perché “Oblio” è stato un libro ostico e faticoso, sia nella forma, sia nei contenuti. Sentivo quasi il bisgono di staccare, tra una storia e l’altra, per leggere qualcosa che mi trascinasse in mondi diversi da quello reale. Eppure, nonostante tutto, lo volevo finire. In tutto il mio stacca e ricomincia non ho mai pensato di lasciarlo a metà e di riporlo sullo scaffale. E, intendiamoci, non sono uno di quelli che quando non finisce un libro si sente sconfitto, oppure in colpa. Anzi. Non terminare la lettura di un romanzo è una delle mie grandi conquiste, come lettore.
Ma perché è stato così ostico? Dunque, andiamo per ordine.
Tanto per cominciare la forma in cui l’autore si propone: eliminazione quasi completa del capoverso, unita alla estrema parsimonia nell’utilizzo dei segni d’interpunzione forti. Aggiungiamoci anche la scarsa attitudine a utilizzare il dialogo diretto e gli scarni intrecci che costituiscono i racconti (no, non ce la faccio a chiamarli romanzi, anche quando durano un centinaio di pagine) e si ottiene delle pagine di parole fitte fitte, in cui l’occhio non trova mai un punto per fermarsi e riposare. Nel racconto di apertura, la media dei punti è 2-3 per pagina e quella dei capoversi uno ogni tre pagine ed è quasi impossibile trovare un punto buono per fermarsi. È una sfida continua alla concentrazione del lettore.
La struttura delle frasi, poi, si compone di parentesi continue che introducono informazioni sempre nuove e, se a tratti ne risulta uno stile avvolgente e claustrofobico, in altri momenti il risultato è pesante e (quasi) illeggibile.
Insomma, per farla breve, non è un libro da leggere sotto l’ombrellone o in un treno affollato.
Ma allora? Cos’è che spinge a leggere. Semplicemente il fatto che Wallace ha qualcosa da dire.
Innanzitutto questo è un libro sugli americani e per gli americani, e per goderlo appieno bisogna essere (almeno un po’) “americani”.
In secondo luogo, sembra che l’autore, a tratti, faccia saggistica usando la narrativa. I fatti sono un pretesto per raccontare e descrivere gli americani e le loro manie, il loro “modus vivendi” e, soprattutto, le contraddizioni quasi grottesche della loro società. È un po’ come guardare i simpson, ma molto più seri, asfissianti e senza via d’uscita.
Quindi si fa fatica, sì, ma alla fine, per quanto questa bellissima copertina sia riuscita a farsi guardare con astio da tutti gli altri libri in attesa di lettura, la fatica è stata giustificata. È un libro che ti lascia qualcosa, atmosfere opprimenti e uniche, tutte legate all’uomo in quanto animale sociale, che tende per natura a correlarsi. L’oblio, che dà il titolo a uno dei racconti, è solo uno dei temi ricorrenti, perché si parla dell’orrore della quotidianità, si parla dell’apparire e dell’apparenza, si parla degli assurdi del business. E quando si sorride, perché un tizio fa delle opere d’arte di cacca direttamente con il sedere o per il modo in cui una nuova merendina viene testata prima di essere lanciata sul mercato, lo si fa in modo amaro, quasi incredulo, e quasi sempre triste. Più volte ho pensato: “Dio mio, forse le cose non staranno proprio così, ma mi sa che ci sono molto vicine”, e ancora più volte ho pensato: “Cazzo, questo lo faccio anch’io!”
Non mi dilungo in una sinossi dei diversi racconti, anche se basterebbero quattro o cinque righe per riassumerne la trama, vi basti sapere che si fondano tutti su idee semplici, ma non banali.
Concludo solo con qualche consiglio/considerazione personali:
1) non cominciate a leggerlo dalla prima pagina, è il più pesante e potrebbe stroncarvi. Cominciate magari dalla fine, dall’ultimo racconto-romanzo, che è il più riuscito, o comunque il più “respirabile”.
2) Prima di comprarlo (a me l’han regalato) perdete dieci minuti in libreria a leggervi il racconto di pagina 135, “incarnazioni di bambini bruciati”. Breve e intenso e molto “horror”, ma che fa capire lo stile in cui è scritto. Se vi piace quello, farete una fatica bestia a leggere il resto, ma alla fine sarete contenti di averlo letto.
3) Non incaponitevi, soprattutto se avete altre cose da leggere, sull’idea di leggerlo tutto di fila. Questo libro l’avrei diviso un almeno tre libri da 2-3 pezzi ciascuno. Insomma, l’uva è buona, ma non la si ingoia a grappoli interi.
In realtà si tratta di due brevi racconti e di sei romanzi che potrebbero assomigliare a dei racconti molto lunghi.
E da quant’è che lo sto leggendo? Tre mesi? Forse quattro. Ci ho letto sopra altri due o tre libri (molto magri, certo, ma anche molto più scorrevoli). Perché? Perché “Oblio” è stato un libro ostico e faticoso, sia nella forma, sia nei contenuti. Sentivo quasi il bisgono di staccare, tra una storia e l’altra, per leggere qualcosa che mi trascinasse in mondi diversi da quello reale. Eppure, nonostante tutto, lo volevo finire. In tutto il mio stacca e ricomincia non ho mai pensato di lasciarlo a metà e di riporlo sullo scaffale. E, intendiamoci, non sono uno di quelli che quando non finisce un libro si sente sconfitto, oppure in colpa. Anzi. Non terminare la lettura di un romanzo è una delle mie grandi conquiste, come lettore.
Ma perché è stato così ostico? Dunque, andiamo per ordine.
Tanto per cominciare la forma in cui l’autore si propone: eliminazione quasi completa del capoverso, unita alla estrema parsimonia nell’utilizzo dei segni d’interpunzione forti. Aggiungiamoci anche la scarsa attitudine a utilizzare il dialogo diretto e gli scarni intrecci che costituiscono i racconti (no, non ce la faccio a chiamarli romanzi, anche quando durano un centinaio di pagine) e si ottiene delle pagine di parole fitte fitte, in cui l’occhio non trova mai un punto per fermarsi e riposare. Nel racconto di apertura, la media dei punti è 2-3 per pagina e quella dei capoversi uno ogni tre pagine ed è quasi impossibile trovare un punto buono per fermarsi. È una sfida continua alla concentrazione del lettore.
La struttura delle frasi, poi, si compone di parentesi continue che introducono informazioni sempre nuove e, se a tratti ne risulta uno stile avvolgente e claustrofobico, in altri momenti il risultato è pesante e (quasi) illeggibile.
Insomma, per farla breve, non è un libro da leggere sotto l’ombrellone o in un treno affollato.
Ma allora? Cos’è che spinge a leggere. Semplicemente il fatto che Wallace ha qualcosa da dire.
Innanzitutto questo è un libro sugli americani e per gli americani, e per goderlo appieno bisogna essere (almeno un po’) “americani”.
In secondo luogo, sembra che l’autore, a tratti, faccia saggistica usando la narrativa. I fatti sono un pretesto per raccontare e descrivere gli americani e le loro manie, il loro “modus vivendi” e, soprattutto, le contraddizioni quasi grottesche della loro società. È un po’ come guardare i simpson, ma molto più seri, asfissianti e senza via d’uscita.
Quindi si fa fatica, sì, ma alla fine, per quanto questa bellissima copertina sia riuscita a farsi guardare con astio da tutti gli altri libri in attesa di lettura, la fatica è stata giustificata. È un libro che ti lascia qualcosa, atmosfere opprimenti e uniche, tutte legate all’uomo in quanto animale sociale, che tende per natura a correlarsi. L’oblio, che dà il titolo a uno dei racconti, è solo uno dei temi ricorrenti, perché si parla dell’orrore della quotidianità, si parla dell’apparire e dell’apparenza, si parla degli assurdi del business. E quando si sorride, perché un tizio fa delle opere d’arte di cacca direttamente con il sedere o per il modo in cui una nuova merendina viene testata prima di essere lanciata sul mercato, lo si fa in modo amaro, quasi incredulo, e quasi sempre triste. Più volte ho pensato: “Dio mio, forse le cose non staranno proprio così, ma mi sa che ci sono molto vicine”, e ancora più volte ho pensato: “Cazzo, questo lo faccio anch’io!”
Non mi dilungo in una sinossi dei diversi racconti, anche se basterebbero quattro o cinque righe per riassumerne la trama, vi basti sapere che si fondano tutti su idee semplici, ma non banali.
Concludo solo con qualche consiglio/considerazione personali:
1) non cominciate a leggerlo dalla prima pagina, è il più pesante e potrebbe stroncarvi. Cominciate magari dalla fine, dall’ultimo racconto-romanzo, che è il più riuscito, o comunque il più “respirabile”.
2) Prima di comprarlo (a me l’han regalato) perdete dieci minuti in libreria a leggervi il racconto di pagina 135, “incarnazioni di bambini bruciati”. Breve e intenso e molto “horror”, ma che fa capire lo stile in cui è scritto. Se vi piace quello, farete una fatica bestia a leggere il resto, ma alla fine sarete contenti di averlo letto.
3) Non incaponitevi, soprattutto se avete altre cose da leggere, sull’idea di leggerlo tutto di fila. Questo libro l’avrei diviso un almeno tre libri da 2-3 pezzi ciascuno. Insomma, l’uva è buona, ma non la si ingoia a grappoli interi.
Anifares
David Foster Wallace è una bellissima concentrazione! Credo che sia uno dei miei scrittori preferiti e non parla solo dell'America ma in fondo di tutti gli esseri umani svelando pensieri nascosti nel nostro cervello chissà da quanto tempo … peccato che non ci sia più, hai mai pensato di leggere i suoi reportage? Molto più leggeri come per esempio "una cosa divertente che non farò mai più" provaci è molto piccolo ma ne vale la pena.